RACCOGLIERE E BRUCIARE


Dettaglio eventi

Evento finito il 24 Marzo 2018


Una produzione Compagnia Enzo Moscato\Casa del Contemporaneo

 

Se si guarda non troppo distrattamente alla proposta scenica contenuta in Raccogliere & Bruciare (ennesima mia ‘trad’ invenzione’di un classico letterario o teatrale universale – ne avrò fatte almeno una decina in circa quarant’anni di attività drammaturgica), è che essa è fatta,qui e là, di assidui e premeditati tradimenti. Sia rispetto all’originale testuale anglo-americano d’ispirazione, sia rispetto all’idea in generale che uno ha,o si fa,a proposito della‘cosa’o dell’’evento’ comunemente chiamato Teatro. Per quel che riguarda il primo aspetto,ossia quello relativo alla traslazione in un mio personale gergo Italo-napoletano del testo di partenza, il concetto operativo di traduzione (e l’ho più volte e in più luoghi sottolineato) è che esso è connesso, dal principio alla ͅfine, col più radicale e il più libero esercizio inventivo traduttorio. Per me, infatti, il binomio traduzione-tradimento – anche solo restando al mero piano della scrittura – non è un ‘optional’ più o meno arbitrario di chi, per lavoro, verte un idioma in un altro e diverso idioma del pianeta Terra, ma un dovere, oltre che un diritto, che va esercitato senza riserve e senza risparmio, al ͅfine di restituire intatta al lettore (o, nel caso del Teatro, allo spettatore) tutta la vivezza e la ricchezza e la complessità e la poli-semanticità, a più livelli, già insiti, ma magari celati, nel testo ispirativo a monte. Ed è così, allora, che, obbedendo a quanto qui di sopra ho segnalato, la minuscola e dignota cittadina di Spoon River, nell’Illinois, col suo lillipuziano e parlante cimitero, pieno zeppo, com’è, di dediche ed epitaffi, di grottesche e amare sintesi di vita, incise sopra i marmi o sulle croci, presso fosse o tombe di ossianica e incupente atmosfera nord-atlantica, può – nel mio immaginario e nella scrivente mano che adesso immaginario è sottomessa- trasformarsi senza troppe reticenze e timidezze nel più vasto ed affollato e musicale ed inveentee, a tratti,anche incasinante ed ammuinante, cimitero o campo-in-santo della celebre città di Spentaluce. Allegoria, quest’ultima, sin troppo trasparente, ma anche, a momenti, contrastante-confondente, di Neapolis – la greca, distrutta da un’ennesima quanto lavica eruzione micidiale del Vesuvio, che è,poi, a ben guardare, il vero e l’unico demiurgo Giove-Pluvio- Ultor, che, in bene e in male,da vivi nonché da morti, dittatorialmente, dasempre, ne sovrasta e condiziona gli abitanti. Il secondo aspetto del lavoro da prendere in considerazione è la forma teatrale da me scelta, o ricavata, dalla‘trad’ invenzione’ linguistica suddetta, operata sul testo basico. Cioè, l’aspetto,direttamente scenico che vien fuori dal doppio evoluto tradimento della lingua e del luogo del testo originario; come pure dello spiazzamento legato alle attese solite della costruzione dell’evento spettacolo. Questa forma – ognuno se ne potrà rendere conto guardando la rappresentazione – è la pressocchè radicale immobilità – o semimobilità -degli attori/attrici, chiamati a impersonare le ͅfigure del testo, che, attraverso un reiterato ed assoluto gioco narrativo/denarrativo, fatto di parole e ͅfilastrocche, di senso e di non-senso, di ricordi e di smarrimenti repentini degli stessi , evidenziano e conducono la messa in scena dal principio alla ͅfine. Ebbene, qualcuno si chiederà perché, in questo spettacolo, io faccio così poco muovere gli attori. Ed io rispondo che la risposta, a questo giustiͅficatissimo quesito, non può essere da parte mia che… vaga, ahimè!,o semplicemente e nudamente di tipo emotivo e, pertanto, evocativo. Ma, forse,un briciolo di ragionamento a monte c’è. Anche se parliamo di un ragionamento fatto solo con me stesso. A labbra serratissime e a suono di parole così basso che nemmeno mi arrivano agli orecchi! Intanto, si muovono poco o niente, perché, alla ͅfine, dopotutto, dovrebbero ‘essere’ dei Morti. E i Morti, si sa, sono pure anime, o, tutt’al più, degli ‘apparenti’ corpi. In secondo luogo – e qui, spero non me ne vorranno i miei concittadini spettatori! – sono Napoletani, vuoi sulla carta del copione, vuoi sopra i legni del palco – e, in quanto tali, in quanto Napoletani, già di loro sono tradizionalmente di natura dinamico-vulcanica incontenibile, come ognun sa – o s’immagina. Pertanto, a mio avviso, sulla scena, vanno fatti muovere il meno possibile, per non incorrere, magari, in un eccesso di descrittivismo – naturalismo ͅfisico/ͅfigurativo, che, oltre che deleterio sul piano stilistico generale, sarebbe anche ridicolmente in contrasto con la‘parte’ di defunti, di ‘ non natura’ ,di inorganica materia, che vanno a interpretare. Ma, soprattutto, in scena, ho deciso di contenerli il meno possibile (un meno possibile relativo, s’ intende, perché, alla ͅfine, non voglio mica raschiare dalle loro partenopee voci e pelli quanto di espressivamente bello possono avere in relazione alla loro e nostrana indole o natura), dando loro cioè una forma statica e non inutilmente e fastidiosamente tutta giocata sulle classiche ‘entrate’ e ‘uscite’ di un Teatro di scontata convenzione, proprio allo scopo di attivare all’ improvviso e inaspettatamente l’intermittente gioco dello scoppio della mobilità e della vivezza, dell’anarchia e dell’irriverenza che io -personalmente – immagino i Napoletani debbano conservare anche quando sono giunti nel proverbiale ‘Aldi là’ – che, per l’appunto, per forza caratterialmente ignea, esplosiva loro, non puòessere e tradursi che in un verace e reiterato, inestinguibile ‘Aldiqua’! Detto questo, si potrebbe anche leggere la forma – il ‘visus’ dello spettacolo- come una sorta di umile nonché sgangherato omaggio alla famosa e ben altrimenti tragica ‘classe morta’ dikantoriana memoria oppure come una scenica rivisitazione – in chiave parteno-grottesca – degli istrionici e stralunati fantasmi della ‘Visite àJean Barrès’ del sempre attuale e surreale- metaͅfisico Cocteau. Perchè, in fondo, che cosa sono i Morti – e soprattutto – cos’è il luogo dove vanno a ͅfinire, quando il loro stato di moritudine è acclarato, nessuno di noi – ovviamente – lo sa. Nonostante la sterminata sequela di suggestioni e descrizioni propinateci da arte, ͅfilosoͅfia, religione, nei secoli dei secoli. E pertanto, ognuno – Lee Masters, gli spettatori ed anche l’imbelle sottoscritto! – può farsene un’idea o una qualche fantasia, al riguardo. E liberamente crederle o presumerle – entrambe, idea e fantasia- reali, oggettive, veritiere, perché, evidentemente, tanto e non più di tanto, può arrivare a comprendere e a tollerare il cuore e l’intelletto della specie detta umana.

Enzo Moscato

 

liberamente ispirato alla Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters
testo, ideazione scenica, costumi e regia  Enzo Moscato
assistente alla regia Angelo Laurino
con Giuseppe Affinito, Massimo Andrei, Benedetto Casillo, Salvatore Chiantone, Gino Curcione, Enza Di Blasio, Carlo Di Maio, Caterina Di Matteo, Cristina Donadio, Tina Femiano, Gino Grossi, Carlo Guitto, Amelia Longobardi, Ivana Maione, Vincenza Modica, Rita Montes, Anita Mosca, Enzo Moscato, Francesco Moscato, Imma Villa
e con la partecipazione di Oscar e Isabel Guitto
installazioni Mimmo Paladino
luci Cesare Accetta
musiche originali di scena Enza Di Blasio
ricerche musicali Teresa Di Monaco
costumi Daniela Salernitano
trucco Vincenzo Cucchiara

Dicembre 19th, 2017 by